L’antica arte del Kintsugi (金継ぎ), ”riparare con l'oro”.

In occidente siamo usi gettare gli oggetti che si rompono. La cultura orientale, tramite il kintsugi, insegna invece la resilienza, la capacità cioè di reagire alle avversità della vita con coraggio, trasformando le esperienze dolorose in occasioni di crescita.
Bisogna accettare il concetto che nulla è eterno, che la bellezza è effimera, che non possiamo cancellare ciò che è stato; dunque le avversità non debbono prostrarci, ma, al contrario, debbono servire a ripartire e a ricostruire, allora le “ferite” possono essere messe in mostra, come medaglie al valore.
La storia dell’arte Kintsugi
L’arte Kintsugi nacque in Giappone nel periodo di Ashikaga Yoshimasa (1435-1490). Leggenda vuole che lo shogun ruppe una delle sue tazze preferite e che questa venne inviata in Cina per essere riparata tramite dei semplici ganci metallici. Insoddisfatto del risultato incaricò allora alcuni maestri ceramisti giapponesi che, ispirati dalla dottrina Wabi-sabi del buddismo Zen, riunirono i pezzi con una speciale lacca (la urushi, estratta da una pianta autoctona, la Rhus Verniciflua) e ricoprirono le crepe con polvere d’oro.
Questo metodo, utilizzato ancora oggi non nasconde le linee di rottura, ma anzi le esalta, rendendo la fragilità un punto di forza mentre l’oro ne accentua la bellezza. Così riparato l’oggetto diventa unico, irripetibile grazie alle sue particolari crepe, una vera opera d’arte.
Per capire meglio questo approccio è necessario fare un cenno alla dottrina del Wabi-sabi e ad alcuni dei suoi concetti fondamentali:
- Anicca, tutto è impermanenza, accettare tale condizione è avere un approccio sereno e consapevole alla vita.
- Mono no aware, è la malinconia che deriva dall’apprezzamento della bellezza delle cose e la contemporanea consapevolezza che saranno tutte destinate a finire.
- Fukinsei, la bellezza che nasce dall’asimmetria. Enso, il cerchio Zen, è disegnato incompleto a simboleggiare l’armonia e la naturalezza che derivano dall’imperfezione.
Il Kintsugi (da “kin” che significa letteralmente “oro” e “tsugi” ovvero “riunire, riparare”), ha dunque due valenze: una pratica che ci permette di ritrovare un oggetto al quale tenevamo molto e che, normalmente, avremmo gettato, l’altra è l’insegnamento che le avversità della vita non devono spezzarci, ma al contrario, darci nuova forza per ricominciare.
“Non permettere alle tue ferite di trasformarti in qualcuno che non sei”
Paulo Coelho
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